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发表于 2004-2-16 11:07
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这个是意大利人Gianluca Bellin队登四姑娘山的一个山的叶面文字,也许那山就是“Wong Shan”?可惜是意大利文的。mh也许可以看懂。
http://www.intraisass.it/cina2000.htm
Cina 2000
di Gianluca Bellin
Sichuan (margine orientale del Tibet, Cina), Siguniang Mountain: due alpinisti partono da soli alla scoperta di una valle meravigliosa (primavera e autunno 2000).
Il grosso problema di un alpinista sognatore come me, oltre a quello delle tasche vuote, è cercare posti nuovi nelle zone montuose in giro per il mondo dove nessun alpinista sia stato ancora. La ricerca di un tale eldorado la conduce, di solito, l'amico Diego Stefani mettendosi a cercare in modo certosino un luogo dove ci siano montagne vergini con pareti di almeno mille metri e possibilmente in quota; normalmente accade che mi arriva via e-mail la foto di un'enorme parete sulla quale, si è certi, nessun ‘collega’ è riuscito a tracciare una via.
E' così poi, in meno di tre settimane, ci ritroviamo all'aeroporto, davanti alla signorina del check-in, in due, con almeno 70 chili di bagaglio a testa (gli alpinisti che girano il mondo sanno che non sto esagerando) e tanta voglia di partire per una nuova avventura.
Con queste premesse iniziano anche le nostre due spedizioni in Cina: è la primavera del 2000 quando, dopo aver impietosito quella ‘bona’ della signorina del check-in con scuse del tipo “ma mi no savevo che podevo portare soeo 25 chii de roba” (non sapevo di poter portare solo 25 chili di bagaglio), ci dirigiamo all'imbarco con uno zaino a testa, una tenda e il portaledge in mano; sì perché la ‘bona’ ha già chiuso un occhio sui quattro giganteschi sacconi che le abbiamo presentato e farle vedere il resto ci sembra azzardato.
Tralasciando gli ulteriori particolari da commedia all'italiana anni ‘60; saliamo quindi in aereo, destinazione Hong Kong, da dove con un volo interno arriviamo a Chengdu, capitale della regione del Sichuan, e con un taxi che ci costa oro giungiamo nell'hotel più lussuoso che io abbia mai visto nella mia carriera.
Le informazioni a nostra disposizione sono poche e per lo più di tipo alpinistico, quindi fatichiamo non poco a capire dove si trovano le montagne che stiamo cercando e a spiegarlo a qualcuno che ci possa portare lì, anche perché in Cina pochissimi parlano inglese e tutte le indicazioni stradali e topografiche sono scritte con gli ideogrammi. Finalmente dopo quattro giorni riusciamo a trovare un autista che sembra aver capito le nostre esigenze, facciamo la spesa e partiamo: destinazione Siguniang Mountain.
La prima tappa notevole del tragitto la raggiungiamo dopo otto ore di furgoncino, tipo Seicento, sempre anni '60: arriviamo in cima ad un passo di 4350 metri, aperto di recente, e qui, guardando i muri di neve fresca sento una voce dal di dentro che dice “par mi xe masa presto” (forse non è la stagione buona), ma per scaramanzia non esterno i miei pensieri a Diego.
Ad ogni modo, storditi da un leggero mal di testa dovuto alla quota, oltrepassiamo il paese di Rilong e ci dirigiamo verso l'entrata di una stretta valle dichiarata zona parco. Qui troviamo dei guardaparco che, ci sembra di capire, vogliono farci pagare un biglietto destinato soltanto agli occidentali, ma alle loro insistenti richieste noi rispondiamo con grandi sorrisi e grosse lacrime e, ogni tanto, con dei bei “ma va in...” (questa non la finisco e non la traduco).
Superata con successo la vicenda guardaparco, cominciamo a salire lungo una comoda strada sterrata, e con il collo a mo' di giraffa cerchiamo di individuare una bella parete e un buon posto per piazzare le tende. Di roccia però se ne vede ben poca dato che, più saliamo, più ci addentriamo in un fitto nebbione, perciò decidiamo di sistemarci vicino alla casa del pastore tibetano Wong.
Questo gentile personaggio, senza nemmeno conoscerci ha mobilitato tutta la sua numerosa famiglia, la quale, fornendo prova di perfetta organizzazione cinese, ci ha costruito un recinto per tenere distanti gli yak, i maiali, le pecore che girano liberi. Quindi a noi non è rimasto che pagare l'autista, montare la nostra tenda tecnica a due posti, taglia small, e liberare il recinto dalle numerose ‘cacche’ sparse un po' dappertutto.
Il giorno seguente ci svegliamo di buon ora e il tempo non sembra male; dopo aver scroccato un po' di latte di yak ai nostri generosi ed insperati vicini, c'incamminiamo lungo la strada che sale per il fondo valle e subito ci rendiamo conto che le zona in quanto a bellezza e potenzialità ha dell'incredibile. Io e Diego, come due grandi imprenditori, cominciamo a lottizzare la vallata: il lato destro, che ha delle caratteristiche che ben si addicono alle scalate di misto, lo mettiamo in cantiere per il giorno dopo, poi, giusto per togliere la ruggine dalle picche, potremmo salire delle belle cascatone di ghiaccio lunghe almeno 500 metri e infine si può mettere mano al lato sinistro della valle con data inizio lavori “al più presto” e con la fine lavori “tra 50 anni forse”.
La vita è proprio strana, quando sei a casa che guardi il mappamondo ti sembra di conoscere ogni catena montuosa, pare impossibile che in giro possano esistere delle montagne dove nessuno sia mai stato prima. E invece, per la seconda volta nel giro di pochi anni, siamo riusciti a scovare un piccolo paradiso per gli amanti dell'arrampicata: sopra i verdi pascoli si slanciano verso il cielo paretoni di granito alti più di mille metri, ovunque guardiamo si vedono spigoli e guglie mai saliti, fatta eccezione per alcuni scalati dal nostro informatore, il signor Milani.
Si tratta di un alpinista fotografo che ha già visitato questi luoghi e che ci ha comunicato le informazioni in suo possesso per giungere fin qui. Queste, purtroppo, vista la vastità del posto, si sono rivelate poche e insufficienti per capire l'andamento delle stagioni: trascorriamo infatti i primi quindici giorni sempre in tenda a leggere e sognare, sotto le incessanti piogge diurne e le nevicate notturne. Fortunatamente uno dei migliori souvenir per i numerosi turisti cinesi, è farsi fotografare abbracciati con degli occidentali, quindi abbiamo il nostro bel da fare per accontentare tutti e le giornate scorrono allegre.
Comunque sia, passate le due settimane consecutive di brutto tempo, tentiamo di attaccare le pareti più vicine, ma la neve molle ed instabile e la grande abbondanza di acqua che bagna le fessure ci costringe a battere in ritirata pensando già di tornare a settembre; nel frattempo possiamo dire a tutti che il posto è brutto.
Prima di tornare a casa salutiamo con un po' di amarezza i nostri vicini e lasciamo loro in deposito un po' di materiale per l'autunno. Ci lasciamo alle spalle tanti sogni, un bel conto da pagare all'amministrazione del parco e una notte brava che difficilmente io e Diego, e soprattutto i numerosi abitanti Rilong che hanno festeggiato con noi, dimenticheremo.
Tornati in Italia ci dedichiamo alle nostre montagne e alla preparazione della spedizione in Iran (questa storia ve la racconterà Diego appena si deciderà a lasciare in pace le brave ragazze del suo paese), ma non passa giorno che non pensiamo a quel posto e a come avremmo potuto realizzare la via di arrampicata più dura della Cina. Per fortuna l'autunno arriva presto...
Settembre, per molti l'inizio di un nuovo anno lavorativo, per noi è l'ora del riscatto, questa volta non ci saranno né problemi né scuse, eccetto la solita signorina del check-in che con molta disinvoltura ci manda a pagare quasi un milione di sovrappeso, ovviamente con lo sconto, e io penso “vecia madega” (vecchia zitella).
Torniamo a Chengdu, facciamo la spesa, noleggiamo il solito furgoncino e ripartiamo. Arrivati al passo veniamo investiti da una bufera di neve, scendiamo la vallata e vediamo le cime imbiancate, entriamo nel parco nascosti tra i bagagli per non pagare il solito biglietto, piantiamo la tenda nel medesimo recinto e penso “gavemo sbaglià danovo” (abbiamo sbagliato di nuovo). Poco male, in compenso i nostri vicini ci organizzano una festa con balli e danze in costume tibetano e brindisi finale con latte, ovviamente di yak.
Il giorno dopo vediamo che le cime sono imbiancate e quindi, per farci passare i brutti pensieri, decidiamo di fare due tiri con il pallone da calcio, tanto per goderci il tiepido sole; proprio tra la fine del primo tempo e l'inizio del secondo vediamo due fuoristrada di una nota agenzia italiana: con aria stupita ci vengono incontro cinque persone, si tratta del gruppo di triestini capeggiato da Marco Sterni.
Questi ragazzi ci raccontano di tre settimane passate in tenda a causa del brutto tempo e dei rischi e delle fatiche fatte per tentare di salire una cima inviolata, io ascolto con aria mortificata le loro storie che sono una fotocopia della nostra prima spedizione, ma dentro di me provo quasi un senso di sollievo (bastardo dentro), apprendiamo così che quello di oggi è il primo sole dopo tanti giorni. Salutiamo gli sfortunati e forti triestini e decidiamo di non indugiare oltre: prepariamo il nostro materiale e fissiamo la partenza per il mattino successivo.
Il nostro obiettivo è una bellissima montagna, situata proprio sopra il nostro campo base, la quale, oltre a presentare un comodo avvicinamento, ci può dare anche il giusto acclimatamento per salire le strutture più impegnative della valle.
Seguiamo una yak-road per circa tre ore e prepariamo il campo 1 sotto ad una parete a strapiombo, utilizzando solo un telo di nylon. Quando scende l'oscurità inizia una notte insonne, intenti come siamo a pensare alle numerose salite da fare. Il tempo però cambia di nuovo: dopo aver ammirato per un bel po' le stelle vediamo verso l'orizzonte avvicinarsi un fronte di nuvole compatto, l'aria diventa più umida, il vento si fa più forte ed ecco arrivare la pioggia mista a neve. Qui siamo a 4200 metri, ancora una volta un brutto presagio, ma non commento.
Il giorno dopo non ci rimane che aspettare una parvenza di schiarita e scendere velocemente, in mezzo a un bel nebbione, fino al nostro campo base. Il nostro amico Wong, appena ci vede, vuole sapere com'è andata e noi gli facciamo capire, a motti ovviamente, che con quel tempo non è possibile scalare; lui ci guarda, fa un sorrisetto e se ne va senza commentare. In quel momento ho l'impressione che ci voglia dire che lì la situazione meteo è sempre così e che per loro il tempo è brutto solo quando nevica e fa molto freddo.
I giorni seguenti li passiamo a cercare dei sassi da ripulire per fare un po' di bouldering: fortunatamente nella zona c'è ne sono un bel po'. Uno di questi, nel lato più strapiombante, ha incisa una parola, ottimo per allenare le dita.
Dopo qualche giorno ci sembra che il tempo stia migliorando. Decidiamo di ripartire: andiamo al campo 1, passiamo lì la notte e il mattino seguente siamo già di ritorno a causa della solita pioggia. Questa situazione si protrae per circa tre settimane finché una bella mattina ci svegliamo al campo 1 e non piove. Senza dire una parola per non farci sentire dai folletti porta-sfiga, prepariamo gli zaini e ci dirigiamo, come due turisti giapponesi in visita a Venezia, verso il centro della parete, diamo poi una breve occhiata all'ipotetica linea di salita, con fare furtivo indossiamo gli imbraghi, infiliamo le scarpette e via.
Il primo tratto è su fessure atletiche ben inzuppate d'acqua, poi affrontiamo delle placchette facili e divertenti, fino ad arrivare sotto a un bel muro, quasi verticale, segnato inizialmente nel mezzo da una buona fessura, che tende però ad assottigliarsi in maniera alquanto preoccupante man mano che si sale. Scaliamo la prima parte con entusiasmo perché l'arrampicata, se pur impegnativa, è però sicura data la facilità di posizionare le protezioni.
Purtroppo non si può dire altrettanto della parte superiore dove ci aspettano fessurine cieche e ben mimetizzate, in mezzo a placche di granito da sogno. Guardo il tempo e spero nella pioggia per avere una scusa buona per battere in ritirata, ma niente, anzi la nebbiolina che ci ha accompagnati fino ad adesso incomincia a dissolversi: non resta che attaccare. Qualche bel respiro per ossigenarci, siamo già a 5000 metri, e poi partiamo decisi. Lungo la via ci aspettano non poche fatiche e intense scariche di adrenalina, dovute alla precarietà delle protezioni. Infine raggiungiamo delle placche più facili che conducono alla cima e qui, quando ormai i giochi sembrano fatti, sono assalito dai mostri della mia mente di appassionato lettore di storie di montagna e comincio ad aspettarmi qualche nefasta sorpresa, si sa, quando il peggio sembra passato...
Invece non accade nulla e arriviamo in cima senza ulteriori sorprese, se non quella di vedere da 5200 metri una selva di cime e guglie di granito probabilmente mai saliti. Quasi commossi da tanta abbondanza ci congratuliamo per la salita e poi subito via con le foto: un autoscatto veloce, più foto possibili al panorama e via di corsa.
E' necessario essere veloci perché sta diventando buio e l'aria si sta facendo carica di elettricità: scendiamo a doppie mettendo a frutto tutta la nostra esperienza e riusciamo, con una rapida discesa, ad arrivare fino al campo 1. Il giorno seguente ci carichiamo come due yak e torniamo al campo base dove veniamo portati ‘in trionfo’ dall'amico Wong.
Rimaniamo lì ancora quattro giorni a guardare la pioggia che scende copiosa, cercando inutilmente di focalizzarci su un altro obiettivo: forse il senso di appagamento nel raccogliere i complimenti di tutti i cinesi di passaggio (Wong ha fatto buona pubblicità) o forse la prospettiva di rimanere in attesa di un altra schiarita chissà per quanto tempo, ci convince a chiudere così quest'esperienza.
Insomma anche se non abbiamo esaudito tutte le nostre fantasie alpinistiche ci sentiamo soddisfatti, anche perché senza riuscire a capire una parola di cinese con i nostri vicini abbiamo instaurato un bellissimo legame, a conferma che noi gente di montagna diamo maggiore importanza ai sentimenti veri che alle belle parole.
Marzo 2002
Gianluca Bellin |
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